Wednesday, July 18, 2007

En Garde




Il rumore è un tonfo. Una serie di tonfi, per l'esattezza. Pieni e sordi come manate su un materasso a cavalcioni della ringhiera di un balcone. Manate nervose, a un millimetro dallo sfogo.
Tunf... Tu-tunf... ... ... Tunf
.
Manate che seguono figure ritmiche intraducibili. Singhiozzano la loro cadenza con un'eleganza che perfino l'orecchio riesce a percepire.
Lo sguardo, al momento, è occupato da due occhi che fissano il centro esatto dei miei in attesa di una risposta. Riflesso condizionato: cerco con la mano tra i capelli nella speranza di diminuire la tensione; ravvivando l'utopia di scoprire parole rimaste impigliate. Ritiro la mano disperatamente vuota.
Una palestra dove si pratica la scherma è un luogo fatto principalmente da due elementi dominanti che diventa difficile distinguere. Il bianco delle divise e il tonfo dei movimenti sulle pedane. Un colpo d'occhio sonoro. Lei viene ad allenarsi qui da quando era molto piccola. Nessuna ambizione agonistica. Solo un amore tramandato, sconfinato e incrollabile per la precisione. La fluidità impeccabile dei movimenti.
"Te ne sei andato. An-da-to." ripete il participio sillabando. Infonde tutto l'amaro distillato dall'ironia nella parola e la infiocchetta con un sorriso obliquo che spegne immediatamente continuando: "Ma perché lasciare che ti trovassi di nuovo? Peggio. Perché lasciare tracce ovunque?" Perché? Perché l'uomo non è capace di muoversi infallibilmente neppure nella sua solitudine? Perché siamo destinati a disseminare pezzi di noi alla minima interazione con la nostra quotidianità? Già: perché?
"Ovunque!" ripete ancora come se volesse spiattellare qui ed ora l'elenco delle mie involontarie azioni. Fortunatamente si accontenta di quell' ovunque. Onnicomprensivo quanto basta. "Perché?"
Già. Perché? Cerco ispirazione tra i duelli in corso. Mi fisso su un allenamento di fioretto. La sagoma sulla sinistra sta portando fraseggi di affondi continui e metodici. Diresti che il bottone in cima all'arma ne sta premendo altri, come componesse un numero telefonico che ha già digitato mille volte sulla tastiera. Sferra l'attacco e non aspetta neanche di sentire il segnale di 'libero' per preparare il successivo. Sembra più un esercizio di impazienza. Anche se dubito ci sia qualcuno disposto a rispondere all'altro capo della cornetta. Infatti lo schermidore sulla destra si difende come può. Para ogni stoccata con una sollecitudine evidente nei gomiti che si distendono e angolano istericamente. Qualche centimetro più in basso, i colpi dei piedi sulla pedana.
Tunf...Tu-tu-tutunf...
Inizio la solfa delle giustificazioni. Quelle non richieste, quelle che non dovrebbero essere presentate. Come fossi mancato a scuola il giorno di festa. Eppure è una presenza che mi si sta imputando. Eppure lei legge e firma. Legge e firma voltando lo sguardo furiosa ad ogni motivo che provo a ricondurre per il mio essere stato presente. 'Presente ingiustificato': questa, davvero, mi mancava.
Commetto un secondo errore. Commetto il secondo errore quando le retrovie del mio cervello stanno già abbondantemente perdendo la pazienza e iniziano a porsi l'unica ragionevole domanda: chi diavolo me lo ha fatto fare? Commetto il secondo errore, scivolando sull'ovvio. Inizio a dare spiegazioni circostanziate. E siccome si sta parlando di qualcosa che non ho commesso deliberatamente, che non sapevo neanche di aver fatto, confondo i ricordi e mi contraddico. Slitto tremolante sulla mia stessa difesa.
La sagoma sulla destra è più esausta di me. Leggo la stanchezza nel portamento. La testa sotto la maschera protettiva abbandona progressivamente la fierezza perpendicolare. Il polso è legnoso. Il gomito tentenna un istante di troppo prima di riportare il braccio in posizione. Ed è allora che lo schermidore di sinistra sente. Quell'elettricità nell'ossigeno che probabilmente ha raggiunto il livello minimo. Sente, ma sarebbe meglio dire che propriamente fiuta l'opportunità di chiudere. Di segnare l'ultimo punto e porre fine a quella resistenza concentrata ma esanime.
"Smettila, per favore. Smettila. Ti rendi conto di come posso essermi sentita? Di cosa ha significato per me?"
Quasi mi lascio scappare un urlo. Due brevi scricchiolii sulla pedana e la sagoma di sinistra, intuendo un varco, si distende. La silhouette bianca, tesa, in cerca del contatto definitivo tra il suo prolungamento e il busto dell'avversario. Non vedo i suoi occhi ma percepisco distintamente il brivido dato dal vuoto. L'espressione che avvampa automaticamente in viso quando la nostra mente è già proiettata all'effetto di una causa che ha preteso di prevedere. E' a quel punto che la sagoma di destra scarta impercettibilmente di lato. Forse è uno spostamento d'aria. Forse è la stanchezza estrema di un corpo che ha solo voglia di non essere più lì. Di fatto, la sagoma di sinistra manca il colpo. E quella di destra la raggiunge. Veloce come un'occasione di quelle che cogli più per istinto e autoconservazione piuttosto che abile tempismo. Eppure va a segno. Eppure vince l'incontro. Non aspetto di vedere i volti stravolti sotto le maschere. Torno ai due occhi che fissano il centro esatto dei miei. Fendo la domanda lasciata nello spazio che intercorre.
Sorrido spostandomi appena.
"Ciao"
ed esco.

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